La natura, lo so Piero, la natura fa il suo corso. Quante volte ce lo hai sapientemente e semplicemente spiegato. La natura. Bè me lo ripeto da quando ho avuto la notizia. Ma quel vuoto immenso che mi lascia senza fiato non riesce a farsene una ragione. Troppo grande. Troppo profondo. Troppo anche la tua assenza. Ogni volta che ci vedevamo mi dicevi “ come sei diventata brava, ti ricordi Gaia quando ti tenevo sulle ginocchia?”. Si Piero, me lo ricordo eccome. Un amico da sempre e per sempre dei miei genitori. Un amico di quelli unici e veri. Quando piccolina venivo a casa vostra ero affascinata (e anche un po’ schifata ebbene sì lo confesso) del terrario che Alberto aveva in camera. Già una passione tra iguane e serpenti. Una famiglia semplice e riservata anche questo ci univa, ci unisce. Vi univa. Tu e papà, una coppia favolosa una amicizia antica fatta, pochi lo sanno di scherzi goliardici con gli immancabili Mario Pogliotti e Gigi Marsico. Quella maledetta mattina dell’arresto di papà, io allora tredicenne, me lo trovai sbattuto in TV in manette, per una perfetta passerella orchestrata da una stampa vergognosa. Nessuno sa che io per lo shock rimasi muta. Andai in camera e non parlai più. Per ore. Non mi usciva una parola. Le ore passavano e io non parlavo. Poi arrivasti tu. Entrasti in camera mia. Ti sei seduto accanto a me mi hai parlato e io ho ricominciato a respirare. Piano piano. Sei rimasto sempre al suo fianco. Al nostro fianco. Ogni volta mi facevi un complimento sulla mia carriera e io sapevo che valeva per due. Lo so Piero è la natura, ma io oggi sono rimasta senza fiato, un’altra volta.
* (tratto dalla sua pagina facebook)
Ex boss della camorra, 69 anni di carcere alle spalle; attore della compagnia teatrale Stabile Assai di Rebibbia. “Sumino ‘o Falco” si spegne a Roma nella sua casa, ucciso da un male incurabile. Di sé, diceva: “Non posso dimenticare di essere stato un camorrista. Oggi, guardandomi indietro, vorrei prendere quel ragazzo e dirgli di fermarsi. Ma non posso, e oggi è giusto che io conviva con il rimorso delle mie azioni”.
Nella sua seconda vita definisce quello che era stato il suo mondo, la criminalità organizzata, “un cancro e un male assoluto”. 39 anni di carcere scontati, tre omicidi alle spalle, poi il pentimento, nel vero senso della parola. Scopre il teatro, vince un premio come miglior attore al Palm Springs international film festival. Nel 2012 pubblica il suo primo romanzo, “Sumino ‘o Falco – autobiografia di un ergastolano” (Robin edizioni). Nel film “Cesare deve morire” dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani interpreta il ruolo di Cassio. Si presentava senza nascondere nulla del suo passato: “Sono un ex camorrista, mi piacerebbe aggiungere ‘ex assassino’. Ma questo lo sarò per sempre. Convivere con questa consapevolezza è la giusta condanna che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni. Ho iniziato in carcere un lungo viaggio dentro di me. Un viaggio per conoscermi e di conoscenza. Ho studiato, ho scritto, ho tradotto in napoletano Shakespeare e recitato. Ho portato sulle tavole del palcoscenico Eduardo De Filippo, Dante e tanti altri ancora. L’arte la cultura l’amore dei miei, il dialogo con le Istituzioni, hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti. Ho la consapevolezza di cosa è il male, e di quello che ho inflitto”.
Poi, la semilibertà. Si impone, come regola, una ferrea disciplina per non sbandare: sveglia all’alba, alle 7,30 sul posto di lavoro all’Università di Roma 3 con la qualifica di portiere fino alle 14,00. Il pomeriggio dedicato al teatro. Recita, con tutti, professionisti, studenti, altri detenuti che alla ricerca di sé stessi attraverso l’arte. Viene scelto dai fratelli Taviani per uno dei loro film più potenti, “Cesare deve morire”. Al Festival di Berlino, il film vince l’Orso d’oro. Con la compagnia teatrale di Rebibbia, nell’anniversario della strage di Capaci, nel 2018 debutta con uno spettacolo su Falcone e Borsellino. Rega è Borsellino. Spiega: “Ogni volta che lo porto in scena sento un po’ di male allontanarsi da me”. Ironico, ma non troppo, aggiunge: “Dopo che ho conosciuto il teatro, ‘sta cella me pare ‘na prigione”.
Dice qualcosa il nome di Enzo Robutti? Agli appassionati di cinema, probabilmente sì. Ha recitato in oltre 70 film, con registi come Federico Fellini, Dino Risi, Pupi Avati, Francis Ford Coppola. Nel “Padrino parte III” interpreta il ruolo di Licio Lucchesi, il politico colluso con la mafia. Ha lavorato con Vittorio Gassman e Giorgio Strehler; tra i capiscuola del cabaret italiano, uno dei grandi mattatori del Derby Club di Milano. Può capitare, nel vagare in TV private, di imbattersi in film dove lui recita. Uno di questi, spesso ripetuti, è “Gian Burrasca” di Pier Francesco Pingitore con Alvaro Vitali; non esattamente un film eccelso. Robutti interpreta il ruolo di Stanislao Calpurnio, lo stralunato direttore del collegio dove viene rinchiuso Gian Burrasca. È da credere che per ragioni alimentari Robutti si sia un po’ dilapidato in una quantità di film che non passeranno alla storia del cinema. Al di là di questo, quel viso non a qualcuno di noi non era del tutto sconosciuto, non tanto, non solo, per averlo visto in un film o in una produzione televisiva.
Al di là della maschera, Robutti era persona di raffinata cultura e di grande impegno civico; per molti anni è stato un attivista del Partito Radicale e nella Federazione dei Verdi. Il 1992 è a Sarajevo sotto assedio, partecipa alla marcia dei 500 organizzata da Beati i costruttori di Pace.
È morto a Viterbo il 13 febbraio di quest’anno; solo dopo qualche mese la famiglia ha comunicato il decesso.
Era il presidente del Comitato vittime sangue infetto. Contrae epatite e hiv a causa di farmaci emoderivati che non sono stati sottoposti a controllo, e che lui assume in quanto emofilico. Assieme ad altri infettati si è battuto strenuamente per il riconoscimento dell’equo indennizzo e dei risarcimenti alle vittime. Mai rassegnato, sempre in prima fila per i diritti, da ultimo quello sulle prescrizioni di cannabis terapeutica ai pazienti che ne hanno bisogno. “Noi traditi dallo Stato”, il suo mantra. “Viviamo dallo Stato. Viviamo da appestati per una sacca infetta”. Il suo calvario (e quello di altri 120mila contagiati), comincia più di trent’anni fa. “Era una mattina di luglio”, ricorda. “È mio padre a dirmi che ero risultato positivo al test dell’Hiv. Il mondo mi crolla addosso”. Andrea nel 990 ha 25 anni. “È così che ho scoperto di essere appestato”. Non si perde d’animo, diventa il portavoce dei 120 mila emofilici che negli Anni ’80 sono contagiati dal sangue infetto. La farmacovigilanza sugli emoderivati ha fatto cilecca, le sacche contaminate finiscono nelle vene dei pazienti, si trasformano in Hiv ed epatite.
Uno scandalo per il quale l’Italia viene condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per «l’irragionevole durata dei tempi di risarcimento». Uomini e donne condannati a una vita appesa ai farmaci. Nel 1992, quando lo Stato cerca di riparare ai propri errori, le vittime ricevono un indennizzo pari a 500 euro al mese. Per i risarcimenti, alcuni aspettarono un decennio. Dopo molti tentativi di transazione, nel 2014 l’allora ministero della Salute guidato da Beatrice Lorenzin propone una cifra forfettaria di 100 mila euro per ciascun malato, a condizione di rinunciare a ogni causa pendente. Nel corso degli anni, infatti, i processi si sono moltiplicati, fino a circa 7 mila, con esiti spesso paradossali: i malati vincono ma il ministero non paga. Fino all’ultimo Spinetti lotta per i suoi diritti e dei malati come lui infettati. Anni contati in cadaveri innocenti e battaglie giudiziarie che non hanno ancora fine per il colpevole, pervicace elefantismo burocratico delle istituzioni.
Marco Pannella li ha definiti i “radicali ignoti”: le persone che in silenzio, puntuali, anno dopo anno, pagano la tessera di iscrizione e contribuiscono a tenere accesa la fiammella della speranza, del diritto, della vita; della buona vita. Una di queste persone si chiamava Rodolfo Viviani, di Napoli. Se ne è andato a 55 anni. Sul suo profilo Facebook il 14 marzo scorso aveva scritto: “Da pochi giorni ho scoperto di avere una grave malattia. Metastasi al cervello e un tumore principale da trovare. Per ora nessun ospedale vuole ricoverarmi. Non credo di avere molto tempo. Vi prego niente commenti, non ho la forza di scrivere. Vi saluto tutti, è stato bello, vi amo”.
Il 3 aprile un altro messaggio: “Ho iniziato un ciclo di cure presso l’ospedale Cardarelli di Napoli. Ringrazio tutti gli amici che si sono preoccupati per me, mi hanno inviato messaggi e consigli. Non ho avuto tempo di rispondere, come immaginerete io e la mia famiglia siamo molto impegnati in questo momento. Per ora va meglio. Saluti!”.
L’ultimo post è del 13 luglio: “Gli sfascisti filo russi fanno davvero cadere il governo con motivazioni così inconsistenti? Non so se ci credo. Dovremmo tutti tornare alla realtà drammatica del Paese invece di aprire i libri dei sogni”.
Pur alle prese con il tumore che lo ha ucciso, non aveva perso voglia e passione; fino all’ultimo ha lottato per quello in cui credeva. Non so se il Partito Radicale gli ha dato qualcosa; sicuramente lui sì, ci ha dato.